| "[...] La radice era nera, al latte simile il fiore Moly la chiamano i numi, difficile è strapparla per le creature mortali ma i numi tutto possano [...]" -Odissea, Libro X
La misteriosa “erba moly”, di cui parla Omero nell’Odissea (Libro X, vv.257-306), è stata identificata dai botanici come ruta, vicino alle agliacee per altri, mera allegoria per altri ancora: la cosa è controversa assai. I botanici di tutti i tempi si ci sono arrovellati al punto tale che ne è nata una piccola biblioteca di studi antichi e moderni con diverse interpretazioni. La prima risale a Teofrasto secondo il quale il moly crescerebbe realmente sul monte greco Cillene e presso il fiume Peneo, nei luoghi tradizionalmente consacrati al culto di Ermes. La sua radice avrebbe la forma di una cipolla e le foglie sarebbero simili a quelle della scilla marittima (Urginea inaritinia), una pianta mediterranea che ha un grosso bulbo pesante circa due chili (!) e uno scapo alto un metro fornito di fiori bianchi in grappolo: un'agliacea in sostanza. In epoca moderna Linneo chiamò invece Afflum moly un tipo di porro. L'interpretazione come agliacea dell'erba moly pare suffragata dalla comune credenza che queste piante garantirebbero da ogni maleficio. L'aglio in particolare sarebbe talmente potente da provocare malesseri gravissimi alle strghe e ai vampiri, tanto che in sanscrito è detto "uccisore di mostri". Ma a questa tradizione si oppone quella che considera le aliacee contrarie alla fioritura spirituale poiché sono piante, le agliacee, soffuse di crudo zolfo, ottundono le facoltà sensitive e turbano il raccoglimento spirituale.
Un altro gruppo di botanici sostiene che "l'erba moly" sia la ruta (Ruta graveolens), basandosi su Dioscoride Pedanio che scriveva: "Quella pianta viene chiamata ruta montana e anche, in Cappadocia e Galazia, nioly. Altri la chiamano harmala, i Siri besasa, i Cappadoci moly".' Dioscoride proveniva da quella zona e perciò "moly è parola cappadoce" scrive Hugo Ralmer. "E v'è di più: la ruta montana significata con questo nome è per i Saqi persiani abitanti in Cappadocia il surrogato dello hom che avevano in patria e che era anch'esso un'erba magica, come ci riferirà più tardi Plutarco, il quale continua a chiamarla moly. Nella lingua sira questo moly si denomina besasa. In aramaico la denominazione della ruta montana suonava besas, e nella tradizione sira di Galeno, che attinge da Dioscoride, basaso.
Secondo Dioscoride la ruta montana ha una radice nera e fiori bianchi e perciò corrisponde perfettamente all'erba di cui parla Omero. In una interpolazione che si legge nello Pseudo Apuleio ed è tratta da Dioscoride, si dice: "Dai Cappadoci essa viene detta moly, da altri arniala, dai Sri besasa". E perfino nel VI secolo dopo Cristo il cosiddetto Dioscoride Longobardo riferisce: "Un'altra specie di ruta alligna in Macedonia e nella Galazia dell'Asia Minore, e gli abitanti la denominano moly. La sua radice consiste in una radice maestra da cui si dipartono molte radici minori e che butta un fiore bianco".
Fra le erbe cacciadiavoli usate nella notte di San Giovanni, la ruta ha una funzione importantissima, pari all'aglio e all'artemisia, tant'è vero che fu chiamata nel Rinascimento Herba de fuga demonis. Già Aristotele ne raccomandava l'uso contro gli spiriti e gli incantesimi. Nel Medioevo si ponevano corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni e, fino al secolo scorso, la piantina serviva anche nelle pratiche esorcistiche. Questa sua funzione potrebbe essere stata ispirata dalla forma vagamente a croce dei petali.
Negli Abruzzi la si considerava un amuleto contro le streghe: se ne cucivano delle foglie, preferibilmente quelle su cui una farfalla aveva depositato le uova, in un borsellino che si portava celato sul seno. La si consigliava anche contro il malocchio, come credevano le donne del popolo in Toscana.
Fin dall'antichità veniva prescritta per curare veleni e morsi dei serpenti: lo testimonia anche un emblema rinascimentale, riportato dall'iconologo Cesare Ripa, "Difesa contro i nemici malefici e venefici" dove una donnola porta in bocca un ramo di ruta? L'iconologo la utilizza anche per un altro emblema, "Bontà", raffigurata come una donna ben vestita d'oro, con una ,ghirlanda di ruta e con gli occhi rivolti al cielo, mentre tiene in braccio un pellicano con i suoi figliolini presso un verde arboscello in riva al fiume. La bontà è bella, spiega platonicamente, perché la si conosce dalla bellezza. E' vestita d'oro perché l'oro è l'ottimo fra i metalli o meglio, come aggiungiamo noi, perché è simbolo dell'essere supremo, del Buono per eccellenza. L'albero rammenta le parole di Davide nel primo salmo dove si dice che l'uomo che segue la legge di Dio è simile a un albero piantato sullariva di un limpido ruscello. Quanto agli spiriti maligni.... Ha ancora proprietà di sminuir l'amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l'amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l'armonia di quest'organo che suona con l'armonia di tutte le virtù".
E se fosse mandragora bianca?
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